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Big Quit: ecco cosa devono capire le aziende

I termini The Great Resignation e Big Quit sono diventati centrali nel mondo del lavoro a partire dal 2021. Secondo alcuni studiosi, il fenomeno delle Grandi Dimissioni è figlio diretto della pandemia, che ha portato a un cambio di mentalità nelle nuove generazioni. Secondo altri, l’aumento delle dimissioni sarebbe invece da ricondurre allo sviluppo di un processo già in corso, una reazione agli anni di super lavoro che dagli anni Ottanta si è diffuso a macchia d’olio in tutto il mondo occidentale. La pandemia, da questo punto di vista, avrebbe avuto unicamente il ruolo di innesco, con il periodo di lock down capace di creare la situazione adatta per la rottura degli schemi classici. Ma cosa devono fare le aziende per non perdere il proprio capitale umano in questo delicato periodo storico, caratterizzato peraltro da una parallela e crescente difficoltà nel reclutamento di talenti?

The Great Resignation: i dati aggiornati

I numeri e le esperienze dirette di chi lavora in azienda lo dimostrano: quella del Big Quit non è un fenomeno passeggero, non è qualcosa che abbiamo già alle spalle. Come è noto in Italia le Grandi Dimissioni sono esplose soprattutto nel 2022. Stando ai numeri del Ministero del Lavoro, nei primi 9 mesi del 2022 si sono registrate in tutto 1,66 milioni di dimissioni volontarie. Nello stesso periodo, l’anno precedente, se ne erano contate 1,3 milioni, e quindi il 22% in meno. E lo stesso 2021 aveva fatto registrare un aumento del 12,8% rispetto all’ultimo anno di “normalità”, ovvero il 2019. A rendere la situazione più complicata è come anticipato la presenza di un altro fenomeno preoccupante per le aziende, ovvero le difficoltà crescenti che si stanno incontrando nei processi di selezione del personale. Come sintetizzato dall Bollettino del Sistema informativo Excelsior, la difficoltà nel colmare le posizioni lavorative a inizio 2023 per le aziende italiane è in media del 45,6%. Da una parte il Big Quit, dall’altra la pochezza di candidati con i requisiti adatti: in questo scenario, le aziende devono impegnarsi doppiamente per proteggere e per far crescere il proprio capitale umano.

Big Quit: i lavoratori non sono soddisfatti

Il primo fatto che i datori di lavoro devono digerire è che tra i dipendenti serpeggia una diffusa insoddisfazione. Una recente indagine di LinkedIn ha per esempio rivelato che quasi il 70% dei lavori delle Generazioni Z e Millennial statunitensi ha in programma di lasciare il proprio lavoro entro la fine del 2023. Quali sono i fattori che spingono in questa direzione? In effetti sono tanti e diversi. Non si può trascurare ad esempio il fatto che queste generazioni sono più “educate”, più formate rispetto a quelle precedenti, con un più alto tasso di lauree.

Chi seleziona chi?

Che il mercato del lavoro sia già cambiato lo si vede anche nei colloqui di lavoro svolti dagli uffici HR delle aziende. Il concetto di fondo è semplice: chi si candida per un posto di lavoro, soprattutto in determinati settori e per specifiche posizioni, sa molto bene che le aziende stanno affrontando delle difficoltà da una parte a trattenere i talenti, e dall’altra a trovare dei candidati con tutti i requisiti ricercati. Ecco che allora in questi casi sembra che non sia più l’azienda a selezionare i candidati, quanto invece viceversa. Da qui si capisce quanto sia importante lavorare sull’employer branding, sulla presentazione dei punti di forza come luogo di lavoro, e via dicendo.

Capire la sindrome YOLO

Capire e affrontare il fenomeno del Big Quit significa anche comprendere la sindrome YOLO, ovvero You Only Live Once: non si tratta di un momento di pazzia, non si tratta di una deviazione. Quella che le generazioni più giovani stanno vivendo è una tendenza culturale non passeggera, che poggia almeno in parte su delle tesi condivisibili, e non del tutto errate. Affrontare il mercato del lavoro e gestire le risorse umane con gli stessi metodi passati, senza capire che il contesto socioculturale è mutato profondamente, non può che essere improduttivo, inefficace e persino dannoso. É bene invece capire che sempre più persone sono disposte a mettere a rischio la propria carriera e la propria stabilità finanziaria per inseguire le proprie ambizioni personali.

Gli investimenti necessari in azienda

Come reagire di fronte a questi fenomeni per ridurre il turn over del personale e per attirare i talenti necessari per la stabilità e per la crescita dell’azienda? La strategia da mettere in campo si gioca su più fronti. Per prima cosa è necessario investire in programmi di formazione delle risorse interne e di sviluppo delle loro competenze e unicità. In secondo luogo, è necessario creare degli ambienti di lavoro in cui regna il benessere, caratterizzati dall’ascolto e dalla comunicazione efficace. Non basta aumentare gli stipendi, non è sufficiente puntare sul welfare aziendale: queste tecniche potevano bastare anni fa, mentre oggi serve fare di più. I dipendenti devono essere coinvolti, devono essere “ingaggiati” nella mission aziendale, e devono sentirsi capiti. Da questo punto di vista è essenziale concentrarsi non sulla quantità ma sulla qualità del lavoro, con lo smart working che, in questa evoluzione, non può che avere una posizione centrale.

E ancora, va tenuto in considerazione anche il fenomeno ESG, con le aziende che per trattenere i propri talenti sono chiamate a riconoscere importanza alle esigenze ambientali, sociali e organizzative dell’impresa, sapendo che soprattutto le nuove generazioni prestano tantissima attenzione a questi aspetti.

E la selezione del personale? Si fa in modo intelligente

Di fronte al Big Quit, quelli visti finora sono i principali strumenti per mettere al sicuro la propria azienda sul fronte della gestione del personale. Di certo però ridurre il tasso di turn over diminuendo il numero di dimissioni volontarie non risolve l’altro problema, quello relativo alla crescente difficoltà di reclutamento. Qui, oltre a migliorare il proprio employer branding, gli sforzi devono andare verso il perfezionamento della selezione del personale. Con gli head hunter che risultano preziosi sotti i più diversi punti di vista, grazie alla gestione professionale della selezione del personale in outsourcing, con maggiori probabilità di successo, nonché alla possibilità di proporre all’azienda dei candidati passivi, ovvero professionisti qualificati non alla ricerca attiva di un nuovo lavoro: in questo periodo, contare su questo bacino di talenti può fare un’enorme differenza.

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